Linee di riflessione sui
risultati della ricognizione a fronte della Seconda tappa del
Congresso Eucaristico Diocesano. Sessione aperta del Consiglio
pastorale dell’Unità pastorale di Castel Maggiore – 27 febbraio 2017
– Sandra Fustini (trascrizione dell’intervento)
Desidero innanzitutto ricordare che io personalmente non ho alcuna
competenza di tipo sociologico o statistico, e dunque la riflessione
sui dati che abbiamo raccolto e che sto per proporre parte da un
presupposto diverso da quello che richiederebbe uno sguardo tecnico o scientifico. Il nostro
intento era differente.
L’avvio è stato infatti un brano del Vangelo, quello richiamato
nella Prima tappa del Congresso eucaristico, che in sostanza diceva:
mettetevi gli occhiali della compassione, quegli occhiali che ci
fanno simili a Gesù perché la compassione è una delle sue
caratteristiche più belle, e con compassione guardate la gente
attorno a voi, e fatevene voce.
Quindi il mio contributo non è tanto di analisi o di preciso
resoconto, quanto di interpretazione, attraverso quegli stessi
occhiali, dei dati raccolti. Interpretazione che inevitabilmente
talvolta sconfina nell’opinione personale.
Il materiale arrivato è tutto a disposizione per la consultazione
nelle pagine del sito web dell’Unità Pastorale di Castel Maggiore, a
parte i quasi duecento questionari su carta compilati dai genitori
dei bambini del catechismo di III, IV e V elementare le cui
risultanze sono tuttavia tenute presenti in questo mio contributo.
Per noi che abbiamo curato questa “ricognizione” è stato un
privilegio vedere costruirsi tutto ciò. Il fatto stesso che voi
siate tanti stasera è segno che questo è stato un progetto
importante e ben accolto dalla gente.
Sono stati interpellati trenta gruppi. In ognuno, qualcuno è andato
a fare la proposta e poi il gruppo ha lavorato ed elaborato una
sintesi, oppure i componenti
sono stati invitati a inviare il proprio contributo anche
singolarmente. Credo sia importante sapere quali sono, perché una
delle cose emerse dai vari contributi è una certa sensazione di
chiusura, di settorialità: io dirigo il coro e al di là del coro
forse non so molto bene cosa succede. Invece è importante avere un
quadro complessivo di ciò che compone la realtà della nostra Unità
pastorale.
Sono stati interpellati:
– i gruppi di I, II, III-IV superiore
– il gruppo dei giovani dal 18 ai 23 anni
– il gruppo giovani-adulti dal 24 ai 32 anni
– i gruppi sposi (tre, di fasce d’età differenti)
– i genitori dei ragazzini del catechismo di II, III, IV e V
elementare
– i catechisti di II, III, IV e V elementare
– le Caritas delle tre parrocchie
– i cori delle tre parrocchie
– l’Azione cattolica
– il gruppo Cuore immacolato di Maria rifugio delle anime
– la Comunità Capi del gruppo Scout e quindi di riflesso tutte le
Unità
– le suore
– l’Oratorio
– i volontari di Casa Giovanni
– infine è stato lanciato un appello alla fine delle messe per
invitare a un incontro chiunque altro fosse interessato.
Oltre a questi gruppi, che hanno mandato quasi tutti delle sintesi
rispetto alla domande fatte, sono arrivate anche dieci o dodici
risposte individuali.
È stata una cosa capillare, e credo sia importante sapere che
esistono tutte queste realtà nelle nostre parrocchie e sul nostro
territorio, le quali vanno aggiunte a quanto ci ha appena dimostrato
la relazione dell’assessore Giannerini, ossia che Castel Maggiore è
un comune socialmente e civilmente ricchissimo. Quello che ci ha
raccontato ci deve veramente impressionare e rendere riconoscenti.
Siamo molto fortunati. Ma una primissima interpretazione di questi
dati di cui vi ho elencato i proponenti è che invece purtroppo c’è
tanta tristezza, c’è tanta rassegnazione, c’è tanta fatica a vedere
speranza, a vedere il buono. Una delle domande dell’indagine era: Di
che cosa non si può fare a meno? E una delle risposte ricorrenti è:
Lamentarsi. Significativo, no?
Due i risultati che ci eravamo proposti. Il primo era quello di
coltivare e trovare dentro di noi quella maniera di rapportarsi con
le folle che è data dalla compassione. Il secondo era quello di
raccogliere i dati.
Il primo risultato è in un certo senso più immediato da perseguire, in
quanto siamo noi che dobbiamo prendere l’iniziativa di cercare nel
nostro cuore la compassione, quella che ci serve per guardare i
nostri “compagni di tempo” con lo stesso sguardo che ha Gesù. Ed è
un risultato che dipende da noi e dobbiamo in permanenza darci
l’obiettivo di raggiungere. Mi pare di aver capito che siamo partiti
con il piede giusto, perché c’è stato tanto interesse, tanto
fervore, tanta disponibilità a unirsi a questa avventura. Tanta
profondità. E ovviamente ora non possiamo dire: ecco, abbiamo fatto,
è finito. No. Questo è un obiettivo permanente, va cercato
continuamente.
Il secondo risultato, i dati, sono indicatori di situazioni
chiaramente soggette ad altre dinamiche, ed è nostro dovere cercare
di interpretarli al meglio, adesso che li abbiamo raccolti.
Voglio sottolineare che sto parlando al Consiglio pastorale –
allargato, ma è il CPP – e quindi a un organo importante della
nostra Unità pastorale. E a esso vorrei comunicare che mi ha colpito
molto la ricchezza dei contributi pervenuti, le interpretazioni
belle, interessanti, profonde, da parte di tutti i gruppi. Un
panorama complessivo che deve rincuorare per l’estensione e la
serietà. Per fare solo un esempio, mi ha impressionato in modo
particolare il contributo del coro di Sabbiuno, che ha proposto
un’analisi della situazione, a partire dai propri membri, che ha
veramente colto nel segno, con una grandissima capacità di sintesi e
di comprensione. Lo dico perché, come dicevo prima, siamo troppo
spesso ingabbiati in ruoli. Io dirigo il coro, e potrebbe finire qui
il mio compito e il mio fare. No, invece. Ciascuno di noi ha
capacità ed è in situazioni di vita che vanno molto al di là dei
ruoli. Anche se la tentazione di vivere secondo i ruoli è forte. Una
certa risposta in uno dei questionari dice più o meno: “a rischio
poi che, nel momento in cui il ruolo viene meno, non sei più
nessuno. Hai fatto per tanti anni quella tal cosa, nel momento in
cui per qualche motivo non la fai più, non esisti più”. Mi ha
colpito molto.
Un’altra cosa che mi ha colpito è l’uniformità, nel senso che
abbiamo coperto ogni età e tante situazioni, ma i risultati sono
stati abbastanza simili. E dunque per iniziare vi illustrerò una
delle sintesi pervenute quasi nella sua totalità, perché ciò che
viene detto in questa è abbastanza esemplificativo di ciò che viene
detto nelle altre. È il gruppo dei giovani adulti fra i 24 e i 32
anni.
Le domande fondamentali: di che cosa sentono la mancanza?
Risposta: Lavoro che dia una sicurezza.
E questa è una risposta che hanno dato in tanti, e ci ricorda che
siamo collocati, come comunità cristiana, nel cuore della situazione
storica contemporanea, non possiamo ignorarla. Di che cosa si sente
la mancanza (o altrove, cosa dà sicurezza, o di cosa non si può fare
a meno)? Di lavoro. E della stabilità economica che ne deriva.
E l’altra risposta è: Di relazioni vere e durature con persone che
non ingannino.
Anche questo, il desiderio di relazioni sincere, di relazioni
affidabili, e dunque di una stabilità affettiva, viene fuori come
richiesta, desiderio, speranza, gioia… in molte forme è uno dei temi
ricorrenti di queste risposte.
In questa sintesi, i giovani adulti non dicono invece una cosa che
viene fuori di più dagli adulti. Di che cosa si sente la mancanza?
Di
tempo. Viviamo in una maniera frenetica, viviamo in una maniera
trafelata, e siamo sempre a correre dietro a qualche cosa. Nelle
risposte delle persone più adulte la mancanza di tempo ricorre
sempre. Poter avere più tempo libero, tempo per la famiglia, per i
figli, il tempo non ce l’abbiamo e ne sentiamo terribilmente la
mancanza.
Di che cosa hanno paura?
Anche qui c’è la risposta che vale per tutti: Della solitudine.
La solitudine è quello che fa più paura a tutti, che siano vecchi,
che siano giovani… Nelle famiglie, nelle persone che hanno figli è
forte la paura, il terrore che venga a mancare una stabilità
affettiva, che la famiglia vada per aria, che venga a mancare quella
tranquillità emotiva ma non solo che viene da una relazione
significativa, stabile e affidabile.
E: Dell’incertezza del futuro e del lavoro.
Come dicevo prima, la mancanza del lavoro e la mancanza di stabilità
economica, oltre che affettiva, sono le paure che ricorrono
continuamente.
E poi c’è una risposta interessante – ricordo che è la sintesi dei
giovani fra i 24 e i 32 anni.
Di stabilizzarsi in qualcosa (lavoro, situazione di vita, relazioni
affettive). L’idea di fermarsi. L’idea della novità e di andare
dietro a esperienze nuove come valore e l’idea della stabilizzazione
invece come disvalore. Mentre invece nelle età più elevate questa
cosa sparisce completamente, anzi si invoca la stabilità proprio in
quegli stessi campi. È significativo che invece i giovani vedano
come disvalore una stabilità.
Di che cosa non riescono a fare a meno?
Anche qui c’è un coro a tutte le età: Della tecnologia, delle
connessioni internet, del cellulare, dei social network. Di
quello che abbiamo in tasca tutti quanti.
Come ha fatto notare nel suo commento a questa domanda il gruppo di
III-IV superiore, è una diretta conseguenza della solitudine. Nel
momento in cui si vive la paura della solitudine, e si sperimenta la
solitudine, si cerca di collegarsi in tutti i modi possibili e
immaginabili. Ma in una maniera che sia anche “leggera”. Le
relazioni di questo genere possono certamente essere impegnative,
anche oppressive, ma da uno schermo si ha il potere di scollegarsi a
un certo punto. Ed è significativo il fatto che invece in tanti,
specialmente nelle fasce di età più elevate, chiedono relazioni
profonde, relazioni di un genere che non si riesce stabilire
attraverso Whatsapp.
I giovani, anche di altre fasce d’età, indicano fra le cose di cui
non si riesce a fare a meno o le cose ricercate o desiderate fra i
loro contemporanei: Lo sballo, anche pesante. Il turpiloquio e la
bestemmia. Cose che questi giovani che hanno riflettuto su queste
risposte magari giudicano male, e che però è il loro orizzonte. Loro
vivono “normalmente” in questo genere di situazioni.
E un’altra cosa di cui non si riesce a fare a meno, lo dicono questi
giovani ma lo dicono anche gli adulti: Giudicare gli altri ed
etichettarli, escludere i diversi. La critica, il gossip, tutto
quello che è in un certo senso un esorcizzare gli altri – fare in
modo che restino… “altri”. Prenderne le misure, prenderne possesso,
una maniera anche di difendersi. E, come dicevo prima, in altre
risposte oltre a questo c’è: Lamentarsi, di tutto e di tutti, come
se il mondo fosse tutto nemico.
Che cosa dà loro speranza, gioia? Risposte:
Stare bene nelle cose più semplici che possono accadere.
Le proprie passioni che fanno superare le difficoltà, fanno
scaricare le tensioni, aiutano a distrarsi dagli ambiti di lavoro,
studio e famiglia e danno la carica per ripartire e affrontare la
quotidianità.
Mi pare di aver notato che manca, specialmente fra le speranze, la
capacità di osare. Ci si accontenta. Appunto, le piccole cose,
l’abbattere l’ansia, il rilassarsi dopo lo stress, le vacanze, lo
sport, … ma i progetti di più ampio respiro sono meno presenti,
anche se, fra i più adulti, qualche volta questa idea compare fra le
fonti di gioia/sicurezza/speranza. Proprio il fatto che sono molto
poche le fa notare. E, fra gli adulti, la famiglia, i figli, gli
affetti sono i punti saldi di gioia, speranza, sicurezza.
Ho voluto leggere la sintesi di questo gruppo per offrire grossomodo
un’idea di come sono state date le risposte – che, come ho detto,
richiamano molte delle risposte degli altri gruppi.
Diamo ora invece uno sguardo più generale alle risposte alle domande
sulla Chiesa.
In primo luogo… IL PAPA! Francesco Superstar. Non dico altro.
I vescovi… chi sono? Ci sono delle persone che stanno fra i preti e
il papa? L’impressione è che la Chiesa sia il papa e poi, casomai,
il livello molto locale, con una gran nebbia in mezzo colma
soprattutto di pregiudizi pochissimo lusinghieri nei confronti degli
alti prelati. Poi, naturalmente, ad esempio il nostro vescovo mons.
Zuppi si sta facendo conoscere e c’è in alcuni la consapevolezza che
qualcosa si sta muovendo nelle zone “intermedie”.
In riferimento ai livelli bassi, i preti e i laici praticanti, la
situazione è di due tipi.
Da una parte c’è un grandissimo numero di non praticanti a cui la Chiesa
semplicemente non interessa, e che non fa assolutamente parte del
loro orizzonte, delle loro abitudini. Non esiste.
Dall’altra parte vi sono quelli che la Chiesa in qualche maniera la
incrociano per i più svariati motivi, la conoscono, la frequentano.
E mi sembra di capire che questi la giudicano obiettivamente. Mentre
i gradi intermedi, “gli alti prelati” hanno brutta fama, e tante
risposte ne danno la fonte negli scandali presentati dai mezzi di
comunicazione, i semplici cristiani e i preti vengono giudicati per
il loro valore. Non è che i preti sono tutti così, i cristiani sono
tutti così… no, dipende da come sono stati incontrati, per chi in
qualche maniera si è trovato ad avvicinare la Chiesa locale.
Perché è successo qualcosa di cui secondo me bisogna fare tesoro.
Papa Francesco ci ha praticamente aperto un’autostrada. Prima di lui
il prestigio della Chiesa, la narrazione della Chiesa, l’idea della
Chiesa erano faticosi, opachi. La Chiesa era tutta…
Adesso è successo che c’è questo papa che piace tantissimo. E non è
un Padre Pio o qualcuno di marginale, un diverso rispetto a una
Chiesa che invece viene giudicata tutta… no, è il capo della Chiesa,
è il papa, e quindi si fa fatica a dire: “La Chiesa è tutta… però il
papa è una gran persona”. Non è più possibile dire così. Perché la
gente è tutta affascinata da Francesco. Che è il capo della Chiesa.
E quindi c’è questa specie di apertura di credito per cui il papa
offre anche a noi, semplici cristiani, l’occasione di brillare. “Tu
sei cristiana? I cristiani sono tutti…” No, aspetta un attimo,
potrebbe anche darsi di no. E questa capriola ce l’hanno fatta
proprio fare il suo prestigio, il suo fascino eccetera.
Abbiamo dunque queste due situazioni: ci sono quelli a cui della
Chiesa non importa niente, e anche di papa Francesco importa poco,
però ora è più difficile riuscire in ogni caso a dirne male, casomai
li ignorano. E questa grande fetta di gente che della Chiesa non ne
vuol sapere esiste ed è grande.
E ci sono quelli che per qualche motivo incrociano la Chiesa, nella
sua espressione più locale. E questi vedono e ammirano papa
Francesco, vengono in parrocchia e vogliono trovare la stessa cosa.
“Se papa Francesco è buono, affabile, gentile, sempre sorridente,
accogliente… fatemi vedere lo stesso, no? Lui non c’è però ci siete
voi”. Nostro compito di cristiani “semplici” dovrebbe proprio essere
quello di non far percepire alcuna differenza.
Infatti, una delle domande era: Che cosa chiedi alla Chiesa?
La risposta corale è: Accoglienza. Di essere accolto. Di essere
capito. Di essere rispettato. Eccetera.
E qui c’è uno snodo interessante. Perché chi in qualche modo
avvicina la Chiesa locale e i cristiani ne coglie la bellezza. Alle
domande: Che cosa c’è di buono nella Chiesa e nei cristiani? vengono
date tante, tantissime risposte, che viste nell’insieme dipingono un
quadro bellissimo, perché colgono davvero il bello del Corpo di
Cristo nelle sue varie espressioni: dalla disponibilità, che ricorre
tantissimo, passando ovviamente per la carità, fino al “non
fanatismo”, sono veramente troppi da elencare i singoli elementi
riconosciuti come buoni, specchio di una molteplicità di esperienze
personali positive.
Quindi, chi si avvicina alla Chiesa la trova – anche – affascinante,
o per lo meno quei pezzi di Chiesa che si incontrano e piacciono. E
il desiderio, incontrando questa Chiesa, è come dicevo prima, di
essere accolto. Ma… senza essere giudicato.
Infatti ricorre tantissimo, nelle risposte alla domanda: Che cosa
c’è di cattivo nella Chiesa e nei cristiani? l’idea che i cristiani
giudichino chi non è come loro, che le comunità cristiane siano
gruppi chiusi, che la Chiesa sia lontana dalla vera, “normale”
società.
Questo comporta in chi si sente affascinato, interessato, attratto
dalla Chiesa, ma ancora ai suoi margini, una specie di barriera: io
sono diverso, io non sono il tipico cristiano, ho qualche cosa che a
te, che invece sei un cristiano, non va bene, e io mi sento diverso.
E non voglio che tu mi giudichi su questo.
La conseguente reazione è: tu, Chiesa, hai delle regole che io non
sto seguendo. Quindi, sei una Chiesa non accogliente. Quindi, ti
devi modernizzare. Così magari io posso entrare. Perché non
voglio-posso-riesco a seguire le tue regole.
Questo comporterebbe una riflessione che va molto oltre i limiti di
questa nostra modesta ricognizione. Quello che forse possiamo dire
noi adesso è che, se l’impressione che i cristiani giudichino è così
diffusa, bisogna che il problema ce lo poniamo anche a livello molto
quotidiano. Perché dare la colpa agli altri non va da nessuna parte.
La nostra società e la nostra cultura ci spingono a cercare sempre
di dare la colpa agli altri. Ma Gesù è venuto a prendersele, le
colpe. E ha detto: “Fate questo in memoria di me”.
Come se ne esce? Io mi ricordo la bellissima similitudine della
barca. I cristiani non dovrebbero pensarsi sulla riva che dicono
alla barca: guarda che potresti affondare. Dovrebbero sentirsi sulla
barca, solidali con chi sta remando anzi remando ancora più forte. È
la solidarietà di Gesù con gli esseri umani. Se si coltiva questa
solidarietà, e la si evidenzia, la sia ama e la si mostra, forse gli
altri si sentiranno meno giudicati.
Dunque, paura del giudizio: è una cosa che è venuta fuori
tantissimo.
Ma il giudizio va nelle due direzioni. Noi, cristiani – e scusate se
sono così autoreferenziale, ma sto parlando al Consiglio pastorale –
siamo a nostra volta giudicati dagli altri. E anche questo dobbiamo
tenerlo molto, molto presente, proprio nella quotidianità. Alle
domande: Cosa c’è che non ti va bene nella Chiesa, cosa ti allontana
dalla Chiesa, cosa vorresti meno nella Chiesa? La risposta
diffusissima è: L’incoerenza. E in moltissimi parlano addirittura di
ipocrisia. In tanti scrivono proprio “Predicare bene e razzolare
male”. E ovviamente si citano paramenti d’oro e attici lussuosi per
le “alte sfere”, ma il dito è puntato anche molto più in basso.
Ora, se viene dato un giudizio severo sull’ipocrisia nessuno può
obiettare. Ma l’incoerenza è la debolezza normale di un povero
cristiano che ci prova e sbaglia. Però è puntata a dito, e dobbiamo
tenerlo presente. Perché scatta la generalizzazione. Ossia, tu fai
così… tutti i cristiani fanno così.
Bisogna tenerlo molto presente: l’incoerenza del cristiano ha delle
pesanti conseguenze su come viene percepita la Chiesa tutta, facendo
velocemente perdere terreno a quell'apertura di credito di cui
parlavo prima. E i
cristiani vengono giudicati incoerenti soprattutto quando sono
fuori, non quando sono in parrocchia. Dai colleghi, dai condòmini,
dagli amici…
Dunque, abbiamo questo giudizio che va nelle due direzioni, da un
lato e dall’altro dei nostri sagrati. Giudicare, essere e sentirsi
giudicati rispetto a regole, comportamenti di vita, scelte che nel
tempo in cui stiamo vivendo sono lasciate alla volontà dei singoli.
Un tempo la pressione sociale aiutava molto ad assumere
comportamenti che non erano radicati puramente nel Vangelo, erano
radicati nella cultura, una cultura condivisa e diffusa, che era
ampiamente cristiana, e che dettava ciò che era “normale”. Ma ora
questa cultura è venuta meno. Adesso veramente si percepisce una
differenza fra quello che la cultura e la società propongono, e
dunque la pressione sociale incoraggia, e quello che stiamo
ascoltando a messa proprio in queste domeniche, Gesù che dice: “Gli
altri fanno così, ma io vi dico…”. E propone comportamenti
differenti. Quello che era “normale” fino a qualche decennio adesso
non è più “normale” per niente.
Ma credo – e questa è un’interpretazione personalissima, che forse
esula dall’ambito di questa analisi ma la propongo ugualmente –
credo che adesso ci sia anche uno spazio interessante per spostare il
giudizio, quello da cui si difendono tanto i nostri contemporanei e
quello con il quale accusano i cristiani, e dirigerlo verso
situazioni relative anche a materie diverse da quelle – ammettiamolo
– così inchiodate nella testa di tutti, ossia le materie sessuali.
Non perché non siano importanti, assolutamente! Ma perché hanno
coperto e oscurato tutte le altre, altrettanto importanti, per
troppo tempo. E anche in queste risposte, quando si parla di
“regole” troppo rigide, esplicitamente o meno, il riferimento è
chiaro.
Chi ha visto lo spettacolo di Roberto Benigni sui Dieci comandamenti
forse si ricorda quel momento, che mi colpì moltissimo, in cui c’è
l’accorata accusa alla Chiesa di aver fatto coincidere peccato con
sesso, tanto da farne un sinonimo. Diceva Benigni: se si dice che
quella tal donna vive nel peccato, nessuno pensa che è una donna che
ruba, maltratta i genitori o dice delle menzogne…
Ora, se noi riuscissimo a non limitare il dibattito e il confronto a
questa materia, difficilissima perché ingombrante e carica di
pregiudizi e di incrostazioni culturali, ma a portarlo anche su
qualche materia più “facile”: come uso i soldi, come lavoro, come mi
comporto nel condominio, come tratto i miei genitori… si potrebbero
saltare a pié pari pre-giudizi (da entrambe le parti) storici e
culturali e forse il discorso e la testimonianza si potrebbero
portare su materie altrettanto importanti ma che possono partire più
“libere”. Al di là delle “regole” di fronte alle quali tanti non si
sentono a posto, quindi si sentono giudicati, provare a parlare di
cose che anche i “cristiani sulla soglia” hanno la possibilità di
fare. E su quelle confrontarsi. E da quelle, magari, trarre la
credibilità per parlare anche delle “altre”. Fine
dell’interpretazione personalissima, torniamo ai risultati della
nostra indagine.
Resistere, resistere, resistere alla tentazione di dare la colpa
agli altri, così diffusa e martellante nella nostra società. Però
nello stesso tempo ricordarci che anche queste famose folle lontane
a cui dobbiamo andare sono composte di individui ognuno dei quali ha
poi la propria coscienza. Ce lo ricordano i tanti che, alla domanda
che in soldoni si riassume in: Di che cosa avresti bisogno per
venire di più in chiesa?, hanno risposto: “Di credere”. Dobbiamo
umilmente tenere ben presente che essere cristiani è una questione
di fede, non solo di ambienti sicuri dove far giocare i bambini. Una
Chiesa compassionevole deve andare incontro, ma c’è quel’ultimo
passo verso il Signore che spetta a ognuno singolarmente.
Lo dico perché fra le risposte c’è spesso la richiesta della messa
divertente, di svecchiare le liturgie, di omelie interessanti e così
via. La parrocchia come spazio utile. Come posto in cui poter
mandare i bambini dove non gira della droga, sono protetti eccetera.
Questo è interessante nel senso che anche in questo caso, la cultura
nella quale siamo immersi rende difficile da capire che la Chiesa
non può fare marketing. C’è tantissimo la richiesta di
modernizzarsi, di andare verso le esigenze della gente, di andare
incontro a quello che la gente vuole… e non si riesce a capire: “Ma
perché la Chiesa non cambia, così veniamo di più?”. È proprio una
questione culturale. Se tu Chiesa sei un’agenzia intelligente, ti
fai conoscere e vai incontro alle esigenze dei consumatori. Com’è
che nel 2017 la Chiesa questa cosa non la capisce?
Ma nello stesso tempo c’è anche forte la richiesta di testimonianza
e di esempi buoni. Questo è un tipo di marketing che occorre invece
mettere in pratica e che viene domandato con insistenza. Occorre
fare sapere le cose belle, non solo per marketing, ma perché va
incontro a quell’altro diffuso bisogno: il bisogno di Speranza.
Ad esempio, una risposta da parte di uno dei genitori dei bimbi del
catechismo fa presente che il modo in cui viene loro presentata “la
Chiesa” è settoriale e incompleto. Dice testualmente: portatemi a
conoscere gli Scout; fatemi vedere cosa fa la Caritas e proponetemi
di aiutare in qualche modo; portatemi dal coro e insegnatemi un
“Gloria” così lo possiamo cantare a messa (!).
E questo bisogno di buoni esempi non riguarda solo gli “esterni”.
Come dicevo prima, anche l’Unità pastorale da una parte corre il
rischio di vivere a compartimenti stagni, e dall’altra ha bisogno di
gioia e di speranza nel proprio sguardo sulla realtà, come tutti.
A proposito di speranza, un’altra cosa che mi ha colpito è che di
fronte alla domanda: Cosa dà speranza?, pare che in tanti non ne
abbiano proprio colto il senso. Moltissimi hanno risposto che sì, il
mondo è brutto, ma speriamo che cambi… “Cosa” concretamente può dare
speranza non viene scritto. Però, quando la risposta viene data, è
soprattutto centrata sulla famiglia, i figli, gli affetti. Si
percepisce il valore potente e profondo attribuito alle relazioni
familiari.
Una parola sugli anziani. Gli anziani, in questo quadro fosco, sono
i più spaesati di tutti. Paura, solitudine, insicurezza, malattie,
morte… e a coronare il tutto, una mancanza per loro soprattutto di
significato. A cosa serve un vecchio nel 2017? Mi sembra di capire
che può servire a quello di cui tantissimi sentono la mancanza.
Servono radici e saggezza. Il nostro nuovo vescovo, venendo a stare
a Bologna, è andato ad abitare alla Casa del clero. Dove vivono i
preti anziani della diocesi. La storia vivente della diocesi. Don
Pier Paolo è la memoria di Castel Maggiore. Non c’è più don Arrigo,
non c’è più don Luigi. C’è lui, che può aiutare i preti “nuovi” a
capire il contesto nel quale sono stati catapultati. Questo vale per
lui ma vale per tutti.
Noi cominciamo a diventare vecchi – quindi saggi – nel momento in
cui ci facciamo vecchi, e quindi saggi, per i nostri più giovani.
Anche a trent’anni. A me ha fatto impressione vedere nei contributi
come gli educatori si fanno saggi per i loro ragazzini, figure di
riferimento, modelli e sguardo ampio. La vecchiaia – la saggezza – è
poter dire a qualcuno più giovane di me: “Io ho visto succedere
questa cosa che ora vivi tu, ci sono passato anch’io. Adesso a te
sembra terribile, ma io so che non tutto il male vien per nuocere…”
eccetera. Questo è possibile, e più vecchio sei, più vali, perché
hai più esperienza. I vecchi quindi non sono soltanto destinatari di
cura e attenzione… i vecchi sono una risorsa, in questo senso, di
cui si devono loro stessi rendere conto in primo luogo. Non valgono
solamente se riescono ancora a fare le cose che facevano da giovani.
No, ci sono delle cose che si riescono a fare solo da vecchi, per
l’esperienza accumulata. E tutti devono fare lo stesso, coltivando
in sé questo tipo di saggezza. Certo, poi come è proprio dei vecchi
essere saggi, è proprio dei giovani non ascoltare… ma sapere che
comunque questa “sponda” esiste è fondamentale. Non vediamo forse
quanto sono adorati i nonni?
Un altro tema che balza evidente è il silenzio sulle tematiche
difficili. Le tematiche difficili, di cui “dentro” si parla poco o
niente, sono invece il quotidiano di chi sta “fuori”. Separazioni,
divorzi, nuovi legami familiari, aborto, procreazione,
omosessualità, fine vita eccetera. Sulle quali anche quelli “dentro”
si lasciano educare dalla cultura corrente.
L’esempio recentissimo, di stasera: prima di questo incontro c’è
stata la messa celebrata da don Pier Paolo. Le sue prime parole
nell’omelia sono state: “Oggi bisognerebbe dir qualcosa
sull’eutanasia” (ma poi ha fatto un sospiro e ha commentato le
letture). Ma... perché oggi? E ieri no? È che oggi è scoppiato in
televisione il caso del suicidio assistito. Quindi “oggi”
l’eutanasia diventa un problema di cui parlare? No, lo era anche
ieri. Noi qui presenti, adesso, esposti al bombardamento mediatico
di questi giorni, sull’eutanasia sappiamo certamente quello che ci
ha detto la televisione, specchio della cultura corrente, quella che
vive di marketing, che va incontro alle esigenze dei consumatori…
Non so però se sappiamo quello che ne dice la Chiesa. Perché non ne
parliamo. Ma guardiamo la televisione…
Quindi, su tutte queste tematiche difficili il silenzio “dentro”
lascia che sia la cultura, la nostra cultura normale, nella quale
siamo immersi, a impregnarci, condizionarci, formarci. Ora, dalla
parte dei praticanti, a causa di questa mancanza di dibattito, di
guida, l’impressione è che non si sa cosa dire. Da un lato abbiamo
l’incudine delle parole di Gesù che su tanti di questi temi sono
chiarissime. E dall’altra abbiamo il martello della cultura attuale
in cui siamo immersi che ci modella e ci forma e ci fa pensare
quello che pensano tutti. Lo sottolineo qui perché da parte dei
“lontani” si richiede con insistenza che la Chiesa si modernizzi e
accetti le posizioni accettate da tutti. Altrimenti vive fuori dal
tempo, non accoglie i diversi, non accoglie “me” eccetera, vedi
sopra.
E proseguendo su questo filone, troviamo dunque l’accusa di
chiusura, ricorrente in tante risposte, fra le pecche della Chiesa e
dei cristiani. Ora, a parte la solita tentazione di dire
semplicemente “non è vero” e dare la colpa a “loro”, il problema
esiste. Certo, sappiamo che comunque per entrare bisogna “voler”
entrare. Ma una volta che abbiamo tenuto ben presente questa parte
del problema… perché i cristiani da tanti sono visti chiusi?
Vale anche per i cristiani l’accusa fatta ai preti, come dirò dopo,
che non siamo abbastanza in piazza? Forse non siamo abbastanza in
piazza “come cristiani”. Ossia, se tu mi vuoi incontrare come
cristiano, devi venire da me, in chiesa o in parrocchia. Io,
cristiano, lì sono “io”. Quando sono “fuori” non sono incontrabile
in quanto cristiano.
Non è solo una questione di testimonianza, è proprio anche una
questione di ruoli. Quando io non dirigo il coro mi sento
battezzata, testimone, innamorata di Gesù? Oppure il mio essere
cristiana è una questione di FARE? Nel momento in cui faccio
qualcosa di cristiano, allora sono cristiana. Altrimenti no. E chi
mi vuole incontrare come cristiana, deve venire a cantare nel coro.
In senso proprio e simbolico.
Questo richiede un passo impegnativo da parte di chi è fuori.
Decidere di “fare” delle cose cristiane. Che ci vuole, per carità,
ma forse prima bisogna guardare alla “nostra” parte del problema.
Forse non siamo chiusi, nel senso che la porta della stanza è
aperta, ma comunque siamo dentro una determinata stanza… e ripeto,
ci vuole, ma evidentemente non basta. E io stessa sono
autoreferenziale mentre dico queste cose…
L’ultima cosa è sui preti. C’è tutta una serie di commenti che li
vedono santi, bravi, buoni eccetera. Come dicevo prima, i cristiani
“in trincea”, e quindi anche i preti, sono visti e giudicati per
l’effettivo valore. Ma in altri commenti si percepisce che i preti
sono visti anche lontani e burocrati. “Perché il prete non lo vedo
mai in piazza a chiacchierare con la gente?”. Ora, ovvio che nessuno
più dei preti ascolta ed è a disposizione. Ma c’è come l’impressione
che i preti occorre andarli a cercare. E che loro non ti vengono a
cercare. Che se le cose non gliele vai a dire tu, loro non le sanno.
Perché non sono immersi nella realtà. Hanno tanto da fare. Sono
chiusi nei loro uffici a preparare infinite riunioni e liturgie,
sono chiusi in confessionale. E corrono il rischio di perdere il
polso della gente. Ovviamente, soprattutto di quella gente che non
li va a cercare. Certo, l’ho detto prima, nessuno più dei preti
ascolta… ma se tu non hai voglia di andarti a cercare un prete, tu
il prete non lo incontri… Quando don Pier Paolo era parroco fresco
andava a cena tutte le sere da una famiglia diversa… E torna a più
riprese la richiesta del prete che saluta la gente alla fine della
messa magari ancora con i paramenti addosso. Infine, bisogna
ricordarsi che quando un prete è bravo ha più potere di un semplice
laico, anche altrettanto bravo. Hanno un ruolo e un prestigio, e
dunque un’efficacia, inarrivabili, nel campo specifico del prete,
ovviamente. In questo sono insostituibili. In altri campi
probabilmente sì.
E a proposito di cose che i laici possono fare: è stato davvero
bellissimo organizzare tutto questo lavoro. Perché davvero, come
spero di aver dimostrato, abbiamo incontrato una ricchezza e una
disponibilità straordinarie, che scaldano il cuore e danno speranza.
Ma ci devono anche far pensare, per contrasto, a quell’impressione
diffusa che ho citato all’inizio, quella, invece, che trasuda
tristezza e desolazione. Dice il Vangelo: “La bocca parla per
l’abbondanza del cuore”. Cosa c’è nel nostro cuore? Di che cosa
parla la nostra bocca ai “lontani?”.
Il dramma della Chiesa di adesso, secondo il mio personalissimo
parere, è che non svolge il ruolo di accoglienza e rassicurazione di
cui il mondo avrebbe bisogno. E non lo fa perché – come viene fuori
da questi contributi che dovevano essere, e lo sono stati, “voce dei
nostri contemporanei” – quella stessa insicurezza, solitudine
eccetera sono anche le nostre. Quindi anche “noi” siamo insicuri e
impauriti.
Però torniamo al brano di Vangelo che ha rappresentato la Prima
tappa. Che cosa sono cinque pani e due pesci per cinquemila persone?
Gesù ci dice: ricordatevi che non avete solo cinque pani e due
pesci. Avete cinque pani, due pesci… e me. Questa fiducia in Gesù,
questa capacità di fidarsi di lui, di sapere che da soli non
possiamo fare niente ma con lui possiamo fare tutto, la dobbiamo
davvero riscoprire, coltivare e usare.
Anche perché la Terza tappa è tutta su di lui, Gesù: Ritrovare il
centro di tutto, Gesù eucaristia.
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