Andare oltre un mondo di soci
101. Riprendiamo ora la parabola del buon samaritano, che ha ancora
molto da proporci. C’era un uomo ferito sulla strada. I personaggi
che passavano accanto a lui non si concentravano sulla chiamata
interiore a farsi vicini, ma sulla loro funzione, sulla posizione
sociale che occupavano, su una professione di prestigio nella
società. Si sentivano importanti per la società di quel tempo e ciò
che premeva loro era il ruolo che dovevano svolgere. L’uomo ferito e
abbandonato lungo la strada era un disturbo per questo progetto,
un’interruzione, e da parte sua era uno che non rivestiva alcuna
funzione. Era un “nessuno”, non apparteneva a un gruppo degno di
considerazione, non aveva alcun ruolo nella costruzione della
storia. Nel frattempo, il samaritano generoso resisteva a queste
classificazioni chiuse, anche se lui stesso restava fuori da tutte
queste categorie ed era semplicemente un estraneo senza un proprio
posto nella società. Così, libero da ogni titolo e struttura, è
stato capace di interrompere il suo viaggio, di cambiare i suoi
programmi, di essere disponibile ad aprirsi alla sorpresa dell’uomo
ferito che aveva bisogno di lui.
102. Quale reazione potrebbe suscitare oggi questa narrazione, in un
mondo dove compaiono continuamente, e crescono, gruppi sociali che
si aggrappano a un’identità che li separa dagli altri? Come può
commuovere quelli che tendono a organizzarsi in modo tale da
impedire ogni presenza estranea che possa turbare questa identità e
questa organizzazione autodifensiva e autoreferenziale? In questo
schema rimane esclusa la possibilità di farsi prossimo, ed è
possibile essere prossimo solo di chi permetta di consolidare i
vantaggi personali. Così la parola “prossimo” perde ogni
significato, e acquista senso solamente la parola “socio”, colui che
è associato per determinati interessi.[80]
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