Le lotte legittime e il perdono
241. Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri
diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno
che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza
eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che
continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è
accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari
modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che
non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol
dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e
altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi
patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della
sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è
stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del
male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia
e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi
danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo,
e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la
richiede.
242. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male
all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un
bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di
vendette. Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con
la vita in questa maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun
gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se
il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la
vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per
vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui
ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme
apparentemente legali».[224] Così non si guadagna nulla e alla lunga
si perde tutto.
243. Certo, «non è un compito facile quello di superare l’amara
eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze lasciata dal
conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il bene
(cfr Rm 12,21) e coltivando quelle virtù che promuovono la
riconciliazione, la solidarietà e la pace».[225] In tal modo, «a chi
la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla,
una gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni.
Persino di fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma
vera forza, capace di rinunciare alla vendetta».[226] Occorre
riconoscere nella propria vita che «quel giudizio duro che porto nel
cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata,
quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un
pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da
spegnere perché non divampi in un incendio».[227]
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