La mia vita è ammaccata come il mio volto.
Solo sul naso ho ventisette fratture. Ventitré provocate dalla boxe,
quattro da mio padre.
Le botte più forti le ho ricevute da colui che avrebbe dovuto
prendermi per mano e dirmi “Ti amo”.
Era un irochese. Quando mia madre lo ha lasciato, il veleno
dell’alcol lo ha reso folle. Mi ha picchiato a morte prima che la
vita ne proseguisse il gioco al massacro.
Sono sopravvissuto grazie a tre sogni: uscire dal riformatorio dove
ero stato messo – un’impresa mai riuscita fino ad allora -,
diventare capobanda, uccidere mio padre.
Sogni che ho realizzato. Tranne il terzo. Per un pelo…
Per anni è stata la fiamma della vendetta a darmi la forza di
vivere.
Nella prigione del mio odio sono venute a farmi visita delle persone
amorevoli che mi hanno commosso. È a queste persone che la società
rifiuta, i deboli, gli storpi, gli handicappati, gli “anormali”, che
devo la vita. E una formidabile lezione d’amore. A loro dedico
questo libro: sono loro che mi hanno permesso di rinascere.
L’incontro inatteso con l’Amore mi ha
sconvolto l’esistenza.
Oggi vivo in una grande casa luminosa, sulle alture di Lourdes, con
Martine, mia moglie, Églantine, Lionel, Kateri e Timothée, i nostri
bambini. Più qualche persona di passaggio che si ferma da noi in
attesa di riprendere il cammino.
Questa mattina ho sistemato le arnie sul
versante della montagna. Domani le porterò altrove, ad altri fiori,
ad altri profumi. Assaporo il silenzio delle colline che, nelle loro
cavalcate mi portano verso l’orizzonte.
Un’ape mi volteggia intorno, mi ronza vicino al viso, torna sul
fiore, già carica di polline. La sua vita è regolata come una
partitura: essa suona le note della sua eredità, ordini secolari
trasmessi dal codice genetico. L’ape, come tutti gli animali, non
può cambiare alcunché di quel comportamento programmato.
L’uomo sì.
L’uomo è libero di scombinare il proprio destino, per il meglio o
per il peggio.
Io, figlio di un alcolizzato, bambino abbandonato, ho deviato il
colpo della fatalità. Ho fatto mentire la genetica. Questa è la mia
fierezza.
Mi chiamo Philippe, ma mi chiamano Tim perché il mio nome irochese è
Timidy. Significa “signore dei cavalli”. È stato più difficile
addomesticare la mia memoria ferita che un purosangue selvaggio.
Il mio cognome Guénard può essere tradotto con “forte nella
speranza”. Ho sempre creduto al miracolo. Quella speranza non mi è
mai mancata, nemmeno nella notte più nera, oggi la auguro agli
altri.
Dai miei antenati ho ereditato l’assenza di vertigini. Non temo che
un abisso, il più terribile: quello dell’odio al cospetto di se
stessi.
Non ho che una paura: quella di non amare abbastanza.
Per essere un uomo ci vogliono le palle. Per
essere un uomo d’amore ci vogliono ancora più grosse.
Dopo anni di lotte, con mio padre, con me stesso e il mio passato,
ho sotterrato l’ascia di guerra.
Ogni tanto, quando me lo chiedono, parto con il mio furgone per
andare a raccontare le vicende della mia vita incasinata. Qui da
noi, da qualche altra parte in Francia o all’estero, nelle scuole,
nelle prigioni, nelle chiese, negli stadi, nelle piazze pubbliche…
Porto la testimonianza che il perdono è l’atto più difficile da
compiere. Il più degno dell’uomo. Il mio combattimento più bello.
L’amore è il colpo finale.
Ormai cammino sul sentiero della pace.
Tim
Guénard, prefazione al libro “Più forte dell’odio”, ed. Tea |