Nei panni degli altri
dal Bollettino dell'Unità
pastorale n. 1/10, marzo 2016
"È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il
Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un
modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al
dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del
Vangelo”.
Sono le parole del nostro papa Francesco nel documento con
il quale indice il Giubileo straordinario della Misericordia.
Misericordia è una bellissima parola, composta da due parole latine
che vogliono dire compassione e cuore. Significa avere un cuore che
si lascia toccare dalla miseria degli altri.
Credo che sappiamo
tutti che l’elenco delle opere di misericordia corporale viene da
quel bellissimo racconto di Gesù nel Vangelo di Matteo al capitolo
25, quando rivela come, alla fine dei tempi, egli sceglierà i giusti
da accogliere nel suo paradiso. “Venite, benedetti, perché ho avuto
fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a
trovarmi”.
I giusti saranno accolti semplicemente perché
misericordiosi. E i dannati respinti perché non lo sono stati. Non
sapevano nemmeno, dice Gesù, di stare servendo o ignorando il
Signore. È proprio lì il bello. Il cuore tenero, il cuore
misericordioso non “fa” le opere di misericordia perché così si
vince il premio, perché lo dice il papa o per senso del dovere. Il
cuore misericordioso soffre a vedere un altro che soffre, e per
questo “fa” tutto ciò che può per alleviare le sue miserie. Come se
fossero proprie. Perché si mette nei panni dell’altro. E alla fine
dei tempi, Gesù sceglierà i giusti e offrirà loro di condividere la
sua stessa gioia, come in una festa di gente che si capisce al volo,
perché essi hanno fatto ciò che, in fondo, ha fatto lui.
Gesù “si è
messo nei nostri panni”. Lui, Dio, il Figlio amatissimo del Padre,
si è incarnato, ha preso i “nostri panni”, la nostra carne, la
nostra condizione umana, ed è venuto a condividere in tutto, fuorché
il peccato, la nostra vita. Poteva starsene nel suo bel paradiso e
risolvere tutto schioccando le dita? Forse. Come noi, di fronte a
una persona accasciata per terra, possiamo stare lontani e
telefonare al 118, oppure avvicinarci e guardarla negli occhi. In
questo tempo di Quaresima contempliamo proprio questo: Gesù che si è
messo nei nostri panni. Ha assunto la nostra sofferenza, l’ha
conosciuta e l’ha fatta propria. Fino al culmine della sofferenza di
questa nostra condizione umana, la morte. E davvero ognuno di noi,
adesso, anche nell’abisso del dolore più atroce, guardando il
crocifisso può dire: Tu mi capisci. È questa compassione la radice
che nutre lo splendido fiore della Pasqua. È questa compassione la
radice delle opere di misericordia. Per “fare” le opere di
misericordia, dunque, prima di rifornirsi di pane, acqua, vestiti,
alloggio, tempo da donare a chi ha bisogno, occorre rifornirsi di
cuore. Guardare l’altro. E vederlo. Indovinare la sua miseria,
espressa e inespressa. Farla propria. E quindi, col cuore che
condivide tale miseria, darsi da fare per alleviarla. “Ho avuto
fame, ho avuto sete, e voi mi avete assistito”, dice Gesù, “Venite,
dunque, benedetti”. Non è importante il volto o il nome del
destinatario della compassione, e nemmeno il risultato delle azioni
che nascono da tale compassione. L’importante è la misericordia,
agli occhi del Signore. È lui che conosce il volto e il nome dei
destinatari - sono il suo proprio volto e il suo proprio nome,
sempre. E solo lui conosce il risultato - non v’è amore sprecato,
mai: nessuno di noi può sapere dove e come andranno a riflettersi i
bagliori delle scintille d’amore, anche le più piccole. Misurare
destinatari e risultati è impresa immane. E inutile. Specialmente in
questo nostro mondo contemporaneo in cui siamo tormentati da una
consapevolezza confusa e inquietante riguardo alle dimensioni dei
problemi: di fronte allo scandalo della fame nel mondo, alla
terribile e sotterranea lotta per accaparrarsi le risorse idriche
mondiali, agli sconvolgenti e sterminati flussi migratori… gli
articoli semplici e immediati delle opere di misericordia corporale
ci possono sembrare ingenui. Ma il Signore usa altre misure, e il
papa ci chiede di meditare le opere di misericordia per “risvegliare
la nostra coscienza spesso assopita di fronte al dramma della
povertà”. Poi sarà la coscienza a farci trovare le strade per agire,
ognuno secondo la propria condizione di vita. Ma se la coscienza
dorme... Infatti, se da una parte sorge la tentazione dello
scoraggiamento di fronte all’immensità dei problemi, dall’altra
sorge quella della delega in bianco a chi è più qualificato a
trattarli, o del distacco e della diffidenza - fame, sete, vestiti,
alloggio, sanità... roba da servizi sociali, no? Che c’entro io? E
così trova alimento ciò che Madre Teresa di Calcutta chiamava “il
male più grande”, ossia l’indifferenza. La parola di Gesù ci
richiama invece a una dimensione umanissima e possibilissima – la
dimensione del cuore. Del cuore misericordioso, pronto a mettersi
nei panni degli altri e a soffrire le miserie degli altri. Non
(solo) per risolvere i loro problemi, ma prima di tutto per
soffrirli insieme a loro. Sappiamo tutti quanto è importante talvolta
avere anche soltanto qualcuno che ti ascolta e ti capisce, vero? Il
cuore misericordioso è prezioso e utile persino “da lontano”. Ad
esempio, si diceva discutendo questo articoletto in redazione,
attualmente è difficilissimo “visitare i carcerati”, se non si è un
assistente sociale o un parente. Ma è possibile tenere nel cuore i
carcerati e provare a “mettersi nei loro panni”, andando
controcorrente rispetto alla diffusa mentalità dello “sbatterli
dentro e buttare via la chiave”. E la preghiera, se non altro, passa
anche le sbarre delle prigioni. Senza sottovalutare la fantasia di
Dio che può offrire occasioni inaspettate... ma che devono trovare
il cuore pronto e tenero, la coscienza sveglia, sennò nemmeno ce ne
accorgiamo. Come i sorpresissimi dannati respinti da Gesù. E infine,
la dimensione del cuore che si mette nei panni degli altri è un
atteggiamento da coltivare non soltanto rispetto a chi ha fame o
sete o è nudo, forestiero, malato o carcerato. Il nostro mondo
frenetico e confuso tende a farci innalzare muri di fretta, di
indifferenza, di diffidenza, di superficialità, e a farci
considerare tutti coloro che ci stanno attorno... degli “estranei”.
Non dei fratelli, non il nostro prossimo, ma dei nemici, dei
rivali... dei problemi, dei fastidi, delle minacce, dei doveri. Sia
“la gente”, i lontani, sia, purtroppo, i vicini, talvolta quelli
seduti accanto a noi nella panca in chiesa. Educare il cuore a
mettersi nei panni di questi “estranei”, guardarli e vederli. Vedere
il loro cuore, scorgere la loro pena, lasciare che il nostro cuore
ne sia toccato. E offrire il nostro cuore così educato a questi
“altri” che riconosciamo nostri amici e fratelli. È il bellissimo
campo delle opere di misericordia spirituale, di cui parleremo la
prossima volta.
sf
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